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Riflessioni proposte da Don Alessandro, nelle tre serate degli Esercizi Spirituali (7-8-9 aprile 2025)

8 Aprile: IL GIUDIZIO

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 25,31-46)

Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna».

Giudizio. È questo il secondo passaggio nello schema dei novissimi. Un altro tema finito nel dimenticatoio come la morte. Anche qui è avvenuto il gioco del pendolo per cui si è passati da una presenza eccessiva del tema del giudizio di Dio alla sua dimenticanza. Che Dio ci giudichi, che prima o poi dovremo rendere conto a Dio della nostra esistenza sembra non fare né caldo né freddo a nessuno, nemmeno ai cristiani. Eppure prima o poi dovremo rispondere alla domanda del padrone che se ne è andato e ritorna: “Cosa ne hai fatto dei talenti che ti ho dato?”. “Cosa ne hai fatto della vita che ti ho donato? Come l’hai spesa?”. Come parlare di morte è disdicevole, così anche parlare di giudizio sembra inopportuno. “Nessuno mi può giudicare” cantava la Caselli, questo è il motto di tante persone e di tanti cristiani; motto che spesso si trasforma in: “Io non devo rendere conto di niente a nessuno, neanche a Dio”.

Fa sorridere pensare che la fede nella risurrezione in Israele sia nata invece proprio dalla necessità che ci fosse qualcuno che giudicasse e facesse giustizia. Israele non arriva a credere nell’al di là perché ha paura della morte, come tante volte si pensa, per cui le religioni nascono per rispondere alla paura della morte. Anzi, sappiamo che ancora al tempo di Gesù, i sacerdoti, potremmo definirli i tradizionalisti, non credono alla risurrezione ritenendola un’invenzione di quei progressisti dei farisei. Israele arriva a credere alla risurrezione perché sente il bisogno impellente che qualcuno prima o poi faccia giustizia, rimetta le cose a posto. Ovviamente è Dio che giudica e dà il premio ai giusti e la pena agli empi. Ma quando lo fa? Inizialmente si pensa nella vita terrena, poi ci si rende conto che non sempre funziona così, anzi, al contrario, sembra prevalere il male sul bene. Allora si pensa che Dio giudichi nelle generazioni, io godo del bene dei miei antenati e il mio bene verrà ricompensato nella mia discendenza. Ma anche qui ci si rende conto che non è del tutto vero. Ecco, che nell’epoca appena precedente alla nascita di Gesù, nasce l’idea che Dio giudica non in questa terra ma alla fine dei tempi: è proprio la necessità che ci sia qualcuno che giudichi e che prima o poi faccia giustizia che porta Israele a credere in una vita dopo la morte nella quale Dio farà giustizia. Pensiamo a quanto sia attuale questa necessità che prima o poi qualcuno chieda conto ai tiranni di questa terra del loro comportamento. Che Dio giudichi, chieda conto all’uomo di cosa ne ha fatto della sua vita, emerge in tutta la Scrittura, negarlo non ci rende più saggi, ma stolti e ci allontana dal vangelo. Gesù più volte parla di questo giudizio che prima o poi avverrà: pensiamo alla parabola del grano e della zizzania dove la distinzione tra le due avverrà solo dopo la mietitura, alle parabole dei talenti, ai vangeli apocalittici e al racconto di Matteo 25 che abbiamo ascoltato.

«Nessuno mi può giudicare». Come ci piace questa frase, rivolta agli altri ovviamente, perché noi invece siamo sempre pronti a giudicare ed è normale che sia così perché l’idea che non si possa giudicare è pura follia, noi continuamente emettiamo dei giudizi: da quello che scegliamo di mangiare, a come ci vestiamo, alla musica che ascoltiamo… Tutto è giudizio, cioè scelta e scegliendo giudichiamo una cosa migliore di un’altra e lo stesso vale nei rapporti. Scegliere una moglie o un marito rispetto a un altro è un giudizio, scegliere un amico è un giudizio, dire che la guerra fa schifo è un giudizio, che un determinato atteggiamento è sbagliato è un giudizio. Noi continuamente giudichiamo, valutiamo e non ce ne dobbiamo vergognare, è parte integrante della vita. Che cosa vuol dire allora il non giudicare di Gesù? Vuol dire non arrogarsi quel ruolo che spetta soltanto a Dio: emettere sentenze definitive. Ciò che Gesù ci proibisce è di farci giudici della vita nostra e altrui emettendo giudizi irrevocabili. Posso ritenere una persona buona o cattiva, ma non posso condannarla a essere nient’altro che buona o cattiva. Il male è male e bisogna avere il coraggio di riconoscerlo e giudicarlo come tale, ciò che non possiamo fare è condannare la persona che compie il male senza lasciarle alcuna possibilità di cambiare perché questo è il giudizio che spetta solo a Dio, spetta solo a Lui di emettere quel giudizio definitivo e inappellabile che compirà alla fine dei tempi.

Come per la morte, anche il giudizio di Dio è una realtà con cui prima o poi dovremo fare i conti e forse è meglio farli prima che sia tardi. Come per la morte anche il giudizio può diventare nostro maestro di vita; anche qui ci mettiamo in una prospettiva sapienziale. Cosa ci dice il sapere che prima o poi dovremo rendere conto della nostra vita? Ci dice che la vita è qualcosa di serio, non è fare la comparsa in qualche scena secondaria di un film, ma qualcosa di estremamente serio e importante, magari non per le sorti di tutta l’umanità, di certo per quel pezzo di mondo che ci è dato da vivere. Scrive Ratzinger: «La responsabilità esiste soltanto quando c’è uno che chiede conto. Questo fatto di essere interrogati sulla nostra vita, il fatto che di essa ci vien chiesto conto, è quanto ci pone davanti con chiarezza l’articolo di fede sul giudizio. Nulla e nessuno ci autorizza a minimizzare la tremenda serietà presente in tale consapevolezza; essa ci presenta la vita come un caso serio, e proprio così le riconosce dignità». Pensiamo a quante lamentele cesserebbero se ci ricordassimo questo più spesso. Se c’è una cosa di cui tutti siamo infatti bravissimi è nel trovare scuse e scusanti per le varie situazioni, siamo dei fini investigatori capaci di riconoscere tutte le cose che non vanno e il perché non vanno, ma c’è sempre un pezzo che manca in tutte le analisi: io cosa faccio? Qual è il mio ruolo dentro questa situazione? Il mio contributo per migliorarla? Quando saremo davanti a Dio, Egli non ci chiederà come ha influenzato su di noi l’educazione dei nostri genitori, l’avere avuto una certa classe, certi datori di lavoro, il disimpegno di certe persone, la loro incapacità, ma ci chiederà: “Di fronte a questa situazione che tu hai brillantemente presentato, cosa hai fatto?”. Ecco la responsabilità della vita a cui ci rimanda il sapere che Dio ci chiederà conto della mia vita personale, non di quella del mio vicino di banco. Tu cosa hai fatto? Ti sei solo lamentato?

In secondo luogo il sapere che sarà Dio a giudicarmi mi dona la vera libertà perché mi libera dai tanti giudizi che sono inevitabilmente presenti nella nostra vita. Noi infatti non solo emettiamo continuamente dei giudizi, ma veniamo giudicati e ci lasciamo giudicare. Andare in crisi perché una persona non mi ha salutato, non mi ha riconosciuto, non mi ha stimato come volevo significa riconoscere all’altra persona un potere di giudizio su di me. Ci posso star male se uno non mi saluta o ce l’ha con me, ma se ne faccio un dramma esistenziale forse sto dando troppo peso a quella persona dandole il potere di giudicare la mia vita. Un insuccesso scolastico o lavorativo mi può far star male ed è normale, ma se mi manda in crisi, depressione tanto da bloccarmi su tutto forse sto dando un peso eccessivo a quella cosa, le sto attribuendo un potere di giudicarmi e condannarmi. Lo stesso vale anche in positivo. Che nella vita si giudichi e si venga giudicati è inevitabile, tuttavia possiamo decidere chi sia il nostro giudice: Dio o qualcun altro. Porsi sotto lo sguardo di Dio ci dona la vera e piena liberà perché ci libera dai giudizi delle realtà terrene, degli uomini. Ci libera nel senso che dà alle cose il giusto peso e la giusta posizione. Il commento di quella persona mi continuerà a far star male ma non mi manderà in crisi perché so che c’è uno più grande il cui giudizio è più vero e importante così come un complimento mi farà piacere ma non mi farà montare in superbia.

Credo sia una la domanda che ci aiuta a capire quanta libertà vive in noi e chi è il nostro vero giudice: Dio, noi stessi, un idolo o qualcun altro. Che cosa ho da perdere? Di fronte alle situazioni credo che ogni tanto dovremmo farcela questa domanda: ma io, che cosa ho da perdere da questa situazione? Solo se si ha il coraggio di rispondere “niente” allora abbiamo acquisito la vera libertà, abbiamo posto veramente la nostra vita sotto lo sguardo di Dio e non di altro. Se invece non possiamo dire “niente” significa che c’è qualcosa che stiamo idolatrando: l’altro, la mia immagine, la mia carriera, i miei sogni, il mio lavoro, il mio denaro… Scrive Philippe: «Il nostro mondo cerca la libertà, ma la cerca nell’abbondanza dell’avere e del potere. Trascura questa verità essenziale: veramente libero è soltanto chi non ha più nulla da perdere, perché è già stato spogliato di tutto, è già distaccato da tutto, è «libero da tutti» e da tutto; è soltanto colui di cui già si può dire, in perfetta verità, che la morte è «dietro di lui», dato che tutto il suo “bene” è ormai riposto in Dio e in Dio soltanto. È sovranamente libero colui che non concupisce niente e non ha paura di niente. Non concupisce niente perché ogni bene veramente importante gli è assicurato da Dio. Non ha paura di niente perché non ha niente da perdere, niente da salvare, perché non si sente minacciato da nessuno e quindi non ha nemici». È la libertà somma di Cristo che può donare la sua vita sulla croce perché non ha più niente da perdere e sa che tutto gli è donato dal Padre; è la libertà somma dei martiri che hanno illuminato la storia della Chiesa. Scrive Ratzinger: «Una volta che la reputazione sia rovinata, si può vivere poi senza preoccupazioni. Il coraggio di rompere dà libertà, esso solo dona la libertà. Questo coraggio di rompere si chiama, in linguaggio biblico, metanoia, conversione, ma è appunto questo coraggio che ci manca».

Ma allora come giudica Dio? Il vangelo che abbiamo ascoltato ce ne offre uno squarcio ricordandoci innanzitutto una cosa fondamentale: colui che ci giudicherà è Gesù Cristo. Scrive Ratzinger: «Colui che giudica non è qui semplicemente – come ci sarebbe da aspettarsi – Dio, l’Infinito, l’Ignoto, l’Eterno. Egli ha piuttosto affidato il giudizio a uno che, in quanto uomo, è nostro fratello. A giudicarci non sarà un estraneo, bensì colui ce già conosciamo tramite la fede. Il giudice non ci verrà incontro come il totalmente Altro, bensì come uno di noi, che conosce l’essere-uomo dal di dentro e ha sofferto». Ci giudicherà non un oscuro signore, ma l’Amato, Colui che cerchiamo di amare e servire ogni giorno della nostra esistenza. Ci giudicherà uno che ha vissuto la nostra vita fino in fondo e sa benissimo cosa voglia dire essere uomini con le sue fatiche e sofferenze. Ci giudicherà quindi con infinita misericordia e comprensione, ma comunque chiedendoci conto di cosa abbiamo fatto dei suoi doni. Ci giudicherà attraverso un criterio fondamentale: quello dell’amore. Come dice san Giovanni della Croce: “Al tramonto della nostra vita saremo giudicati sull’amore”. Amore verso di Lui che si concretizza nell’amore verso gli uomini, tutti gli uomini, immagini in terra di Gesù. È quello che scrive Klaus Berger in un commento al brano molto bello quanto provocatorio.

«Particolarmente intenso è il concentrarsi su Gesù come via universale di salvezza in Mt 25, il discorso del giudizio universale. Qui si tratta della separazione definitiva tra le pecore e i capri, tra coloro che entreranno nella gloria eterna e coloro a cui essa rimane preclusa. Il testo culmina in: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Evidentemente il criterio è questo. Gesù parla con della gente che evidentemente ha il pelo sullo stomaco, che non si fa più commuovere da niente. Qui prova con la forma più estrema di imperativo. Non mendica, non dice che, per favore, i discepoli dovrebbero essere gentili verso chi è forestiero, nudo e affamato, perché sono tutti essere umani. Non rinvia nemmeno alla dignità umana – evidentemente sa che, di volta in volta, ogni uomo è un lupo per l’altro uomo. Non si appella neppure al sentimentalismo. Gli occhioni neri dei bambini indios ingannano: quando hanno superato i quindici anni, queste persone spesso non sorridono più. Si tratta di tutti gli esseri umani, anche di quelli antipatici, anche dei nostri nemici. Per se stessi ci è quasi impossibile amarli. Il vangelo non pretende a questo proposito alcuna acrobazia dei sentimenti.

Gesù afferra i duri da un lato inatteso. Immaginatevi, dice, che venga io in persona. Allora non eliminereste in gran fretta ogni povertà? Già quando arrivava Honecker, nella DDR si imbiancava la facciata delle case a fianco delle quali doveva passare. Esattamente in quest’ottica Gesù ricorre a un estremo rimedio, quanto mai allarmante, quando dice: con la presente mi dichiaro incondizionatamente solidale con ogni esistenza naufragata. In ogni barbone e in ogni bancarottiere, in ogni tossicodipendente e in ogni orfano da divorzio, in ogni disoccupato cronico e in ogni vittima del mobbing incontrate me in persona. Così più nessuno è al sicuro da lui, perché a ogni angolo abbiamo la possibilità di incontrare il giudice del mondo in persona. Ciò significa uno scacco alla nostra ipocrisia, ai nostri mille tentativi di differire l’aiuto. Questo capitolo è troppo per noi – ma non dovremmo almeno cercare di compiere l’impossibile? Le scappatoie sono note; amiamo per esempio chiedere: perché la miseria del mondo intero dovrebbe essere proprio di nostra competenza? Oppure, insieme al neobuddhismo, dichiariamo che la sofferenza non esiste affatto, bisognerebbe solo cambiare la coscienza delle persone colpite. Questa, però, non è una soluzione, e a che serve, di fronte ad Auschwitz, pretendere dalle vittime un cambiamento di coscienza? No, vale senza restrizioni: tutto ciò che chiunque faccia a un’altra persona che si trova nella necessità è fatto a Gesù. Ogni volta che qualcuno accorda misericordia a lui, il giudice del mondo nascosto nelle vittime del corso del mondo, riceverà misericordia. L’unico vantaggio che i cristiani hanno rispetto agli altri in tale situazione è questo: sanno quali sono i criteri del giudizio universale. Soltanto per loro i criteri del giudizio non saranno una sorpresa. Ai cristiani il giudice in persona ha svelato il codice segreto del giudizio universale».



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