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Riflessioni proposte da Don Alessandro, nelle tre serate degli Esercizi Spirituali (7-8-9 aprile 2025)›7 Aprile: LA MORTE◼ Dal libro della Sapienza (Sap 2,1-24) Dicono fra loro sragionando: ![]() Come ben sappiamo siamo all’interno dell’anno giubilare dedicato, per volontà di Papa Francesco, al tema della speranza. È il tema centrale di quest’anno giubilare su cui tutta la Chiesa è invitata a riflettere e a compiere dei gesti, dei segni o dell’opere di speranza. Pensando a questi ritiri tuttavia, considerato anche il contesto quaresimale nel quale siamo e l’avvicinarsi della Settimana Santa, ho pensato di non trattare in modo diretto della speranza, ma della sua origine. E qual è l’origine della speranza cristiana? Il mistero pasquale che tra poco celebreremo. Mistero di passione, morte e risurrezione di Gesù. È la Risurrezione il cuore della nostra fede, l’origine della nostra speranza e la fonte della nostra carità. Senza di essa tutto ciò che diciamo e facciamo come cristiani è inutile. Scrive infatti San Paolo nella Prima Lettera ai Corinti: «Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,13-14). Che cosa vuol dire allora risorgere? Cosa vuol dire vivere con la certezza di risorgere un giorno? Affronteremo così in queste tre sere il cuore della nostra fede, la risurrezione di Gesù, che è ciò che dà fondamento e sostanza alla speranza cristiana che non è un vano «andrà tutto bene» o un più generico ottimismo. Affronteremo il tema della risurrezione secondo lo schema classico dei cosiddetti novissimi: morte, giudizio e risurrezione. Per parlare della resurrezione è infatti necessario partire da ciò che la precede: la morte. Parlare di morte è sempre visto come qualcosa da evitare, ma la rimozione della morte non è certo la soluzione al problema con cui tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti e proprio perché da essa non si scappa, diventa più sensato farci i conti già da prima perché, come si impara a vivere, così si impara anche a morire. Anzi, la morte ci aiuta a vivere perché, come scrive Ratzinger, «il vero interrogativo posto alla vita umana è la morte; se non si risponde a questo, non si risponde in ultima analisi assolutamente a nulla. Solo raggiungendo la morte si raggiunge la vita». La tradizione cristiana ha parlato spesso della morte non con l’obiettivo di spaventare gli uomini e tenerli soggiogati nell’idea del “memento mori”, ma perché riconosce nella morte uno strumento privilegiato per la vita. Certo, una morte già illuminata dal mistero della risurrezione perché il cuore della questione non è ricordarsi che dobbiamo morire, ma che dobbiamo risorgere, entrare nella gloria di Dio. L’eclissi del tema della morte è innanzitutto l’eclissi della resurrezione, cuore della nostra fede, ma relegato ai margini. Senza la luce della resurrezione la morte può diventare fonte di angoscia e blocco alla vita, invece che suo aiuto, e per questo si fa di tutto per nasconderla, negarla, senza però per questo risolvere il problema perché la morte non è mai assente dalla nostra vita per quanta forza uno utilizzi per rimuoverla. Ecco che la fede ci permette di guardare in faccia a questo mistero senza paura e timore, ma anzi, al contrario, trarne ciò che di positivo ne può venire per la vita. Sono diversi infatti i modi con cui ci si può approcciare alla morte:
L’odio verso il giusto è odio verso quel Dio che l’empio non vuole riconoscere come origine e fondamento della sua esistenza, tant’è che l’attacco al giusto è un attacco a Dio per vedere “se verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari”. Se questo è l’agire dell’empio, quello del giusto ne è l’esatto contrario e nasce dal fatto che riconosce “Dio come padre”, come origine della sua vita e che anche nella morte l’uomo è nelle sue mani perché “Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità”. Ecco che interrogarsi sulla morte significa interrogarsi sulla qualità della propria vita e, soprattutto, della propria fede. Perché? Perché la morte ci porta a interrogarci su ciò che riteniamo fondamentale nella vita, su cosa ne vogliamo fare, su che ricordo vogliamo lasciare di noi, su come stiamo vivendo e questo dipende dal nostro rapporto con Dio e, di conseguenza, dai criteri con cui valutiamo la vita e cerchiamo di esorcizzare la paura di finire nel nulla. Anche se ci diciamo credenti, nel profondo di noi può continuare ad agire la paura della morte e del finire nel nulla e questa paura può portare ai ragionamenti degli empi per cui la vita è un’illusione che passa e io devo accaparrare e godere il più possibile perché non rimarrà nulla, oppure devo trovare modalità attraverso cui esorcizzare la paura di finire nel nulla attraverso grandi opere o costruzioni che lascino un segno perenne del mio passaggio su questa terra. Soffermarsi sul mistero della morte diventa un interrogarsi sulla propria vita, sulla qualità della propria esistenza e della propria fede. Soffermarsi sulla morte chiede però un enorme sforzo di realtà perché non vuol dire soffermarsi su qualcosa di astratto, la morte, ma su qualcosa di estremamente concreto: la mia morte, sulla mia esistenza che oggi c’è e domani potrebbe non esserci più. Dirsi: “Io domani non ci sarò più”. Ecco che non c’è punto migliore in cui collocarsi per vedere il mondo, se stessi e gli avvenimenti, nella loro verità, che quello della propria morte; di fronte ad essa tutto prende il giusto posto ed emergono i nostri criteri di vita e quelli di Dio. Se presa seriamente la morte ci educa, innanzitutto perché ci porta a porci la domanda fondamentale: che senso ha? La morte è per esempio la fine di tutte le differenze e le ingiustizie che esistono tra gli uomini. Quante guerre, quante crudeltà in meno si commetterebbero sulla terra se i potenti della terra pensassero che anche loro presto dovranno morire. Ma rimanendo sulla concretezza della mia vita personale, quante guerre più o meno silenziose eviterei se mi ricordassi che un giorno sia io che l’altro dovremo morire, non ci saremo. Quante battaglie personali, quanti mutismi, quante ripicche, quante violenze verbali o fisiche si eviterebbero se ci ricordassimo più spesso che alla fine moriremo. Quante battaglie ideologiche eviteremmo, anche nella Chiesa, se ci ricordassimo ogni tanco che dobbiamo morire. Di fronte alla morte si pone inevitabile la domanda del senso: “Che senso ha aver portato a morte milioni di persone per un impero che prima o poi la morte mi toglierà? Che senso hanno le tante ripicche, risentimenti, silenzi con cui riempiamo la nostra vita se alla fine dovremo morire? Che senso hanno le mie battaglie per delle minuzie di fronte alla morte? Che senso ha quello per cui sto combattendo adesso di fronte alla morte?”. Canta in modo molto sapiente Guccini: «E ognuno vive dentro ai suoi egoismi vestiti di sofismi. E ognuno costruisce il suo sistema di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali, scordando che poi infine tutti avremo due metri di terreno». Pensare alla morte significa così pensare innanzitutto al senso della nostra vita, del nostro agire. Qual è il senso di quello che facciamo? Di fronte alla morte, ne vale veramente la pena? Da buona maestra la morte non ci pone solo di fronte alla domanda del senso ma, se ascoltata, ci aiuta anche a trovare la soluzione a tanti problemi. Guardare la vita dal punto di osservazione della morte, dà infatti un aiuto straordinario a vivere bene. Diceva padre Cantalamessa nel ritiro di avvento alla curia romana di qualche anno fa: «Sei angustiato da problemi e difficoltà? Portati avanti, collocati al punto giusto: guarda queste cose dal letto di morte. Come vorresti allora avere agito? Quale importanza daresti a queste cose? Hai un contrasto con qualcuno? Guarda la cosa dal letto di morte. Cosa vorresti aver fatto allora: aver vinto, o esserti umiliato? Aver prevalso, o aver perdonato?». La morte non ci chiede solo il senso dei nostri atteggiamenti, ma ci offre la possibilità di trovare soluzioni diverse ai nostri problemi aiutandoci a prendere coscienza che tante volte abbiamo a che fare con sciocchezze. Veramente vorremo lasciare questo mondo con rabbie, rancori, risentimenti, parole non dette? Come vivrei se mi ricordassi ogni tanto che la persona che oggi incontro potrebbe essere l’ultima volta che la vedo? Se mi ricordassi che magari questa è l’ultima volta che vedo mio figlio, mia moglie, mia mamma, mia sorella, quell’amico? Veramente vorrei lasciarli così? Veramente vorrei lasciarla andare senza dirle il bene che gli volevo? Quante parole buone, giuste, sagge, necessarie, quanto affetto in più ci daremmo se ogni tanto ci ricordassimo che quella persona potrebbe essere l’ultima volta che la incontriamo. Se ci chiedessimo più volte: se questa è l’ultima volta che la vedo, come vorrei mi ricordasse? Come ci godremmo di più la vita se ogni tanto pensassimo che quella cosa è l’ultima volta che potremmo farla e quante cose inutili smetteremmo di fare riconoscendo l’importanza di usare al meglio il nostro tempo, per ciò che conta veramente. Di fronte alle cose ultime tutto prende il giusto posto e il giusto peso nel bene e nel male. Si può scoprire che anche una cosa bella e santa sta diventando un idolo con il quale vincere la paura della morte. Di fronte alle cose ultime ha senso tutto l’impegno e le energie per quella cosa anche se è buona e lodevole? Se dovessi morire oggi non avrei forse il rimpianto di non aver usato il mio tempo e le mie energie anche per altre cose lodevoli e buone? Penso in modo particolare al lavoro, alla carriera che sono certamente una cosa necessaria, però dobbiamo chiedercelo, se morissi stasera avrei qualche rimpianto, cosa me ne faccio di tutti i titoli e il prestigio che mi ha dato, non sarebbe stato meglio usare quel tempo e quelle energie per altro? Quello della morte forse è l’esame di coscienza più difficile e vero. Se morissi oggi, stasera, cosa direi della mia vita, come la valuterei, quali rimpianti avrei, cosa mi porto dall’altra parte? Non si tratta di ripristiniamo la paura della morte. Gesù è venuto a liberarci dalla paura della morte, non ad accrescerla, però è venuto a insegnarci la paura della morte eterna, la “morte seconda”, l’unica che merita davvero il nome di morte, perché non è un passaggio, una Pasqua, ma un terribile capolinea. È proprio per salvarci da questa sciagura, quello che si chiama inferno, che la morte terrena diventa un’ottima maestra. La morte può diventare lo strumento migliore per vivere, per riconoscere che abbiamo ricevuto in dono la vita, qualcosa di unico, di prezioso, di degno di Dio, da potere, a nostra volta, offrire a lui in dono. La morte ci chiede conto di cosa ne stiamo facendo di questo dono. Diceva sempre Cantalamessa: «Immaginiamo questa situazione. Una persona ha ricevuto lo sfratto e deve lasciare tra breve la sua abitazione. Fortunatamente, gli si presenta la possibilità di avere subito una nuova casa. Ma lui che fa? Spende tutto il suo denaro per rimodernare e abbellire la casa che deve lasciare, anziché arredare quella in cui deve andare! Non sarebbe da stolto? Ora noi siamo tutti degli “sfrattati” in questo mondo e somigliamo a quell’uomo stolto se pensiamo solo ad abbellire la nostra casa terrena, senza preoccuparci di fare opere buone che ci seguiranno dopo la morte. L’affievolirsi dell’idea di eternità agisce sui credenti, diminuendo in essi la capacità di affrontare con coraggio la sofferenza e le prove della vita. Dobbiamo ritrovare un po’ della fede di san Bernardo e di sant’Ignazio di Loyola. In ogni situazione e davanti a ogni ostacolo, essi dicevano a sé stessi: “che è questo di fronte all’eternità?”». |
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